Il caso Credit Suisse ha tenuto banco negli scorsi mesi non solo in Svizzera ma in tutto il mondo economico/finanziario.
L’Autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari (FINMA), dal canto suo, ha più volte ribadito di aver agito fin dove c’erano margini e che non avrebbe potuto fare di più.
Ma quello che è emerso dal Consiglio federale come dimostra il rapporto “Too big to fail” pubblicato la scorsa settimana, smentisce tale ipotesi.
Secondo il rapporto del Consiglio federale, sono previsti tre “livelli di escalation”. Il livello più alto, il livello 3, doveva essere attivato quando i requisiti minimi di liquidità non venivano rispettati. «Nel caso di Credit Suisse, il livello di escalation 1 è stato attivato il 3 ottobre 2022, il livello 2 il 5 ottobre e il livello 3 l’1 novembre 2022», si legge nel rapporto.
Secondo quanto riportato dal rapporto del Consiglio federale, è successo quanto segue: su ordine della FINMA, è stato tenuto un “Liquidity-and-Funding-Call” giornaliero a partire dal raggiungimento del livello di escalation 1. «Durante le chiamate è emerso che la qualità dei dati e il contenuto informativo dei dati della banca erano spesso insufficienti. In particolare, le previsioni (…) non corrispondevano alla realtà e continuavano a minimizzare il corso della crisi». L’1 novembre 2022, quando è stato raggiunto il livello di escalation più alto, il livello 3, e avrebbe dovuto essere attivato il piano di stabilizzazione, non è successo nulla. Secondo il rapporto: «Il piano di stabilizzazione di Credit Suisse non è stato attivato».